Cristiana Capotondi dice ….Mi piace l’immagine della ghianda, che è indifesa, potrebbe essere calpestata o portata via dal vento… Eppure, ogni ghianda ha la potenzialità di diventare una quercia.
Oggi, so che se un uomo non ti fa stare bene, non vale la pena tradirlo, vale la pena cambiare.
I parchi più belli d'Italia http://www.iodonna.it/lifestyle/viaggi/201...lick=obinsource20 regole per far durare un amoreSe negli anni Cinquanta il matrimonio durava tutta la vita, oggi, secondo le statistiche, non supera i 19 anni. Troppe coppie scoppiano perché incapaci di comunicare. Con l'aiuto dell'esperta, ecco 20 strategie per imparare a parlarsi e stare insieme a lungo, senza farsi male
Immaginate la scena: interno giorno, nella casa di una coppia qualunque.
Lui (amabile): «Tesoro, questo vestito ti sta benissimo».
Lei (torva): «Cos’è successo? Sono mesi che non mi fai un complimento».
È chiaro che l’intera giornata prenderà una piega storta.
Invece, se lei avesse ricambiato la carineria sorridendo, sarebbe stata primavera tutto il giorno.
Ludivica Scarpa, psicologa.
«L’amore è una forma speciale di comunicazione e a volte diventa la catastrofe della comunicazione», dice Ludovica Scarpa, che insegna Teorie e Tecniche della comunicazione interpersonale allo Iuav, l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ed è autrice di diversi libri sulla psicologia della comunicazione, come Volersi bene senza farsi male (Mondadori).
Quante volte abbiamo sentito dire che “uomini e donne non si capiscono”? Peggio, che “sono destinati a non capirsi”? Quando, di recente, si è scoperto che il cervello degli uomini e quello delle donne funziona diversamente, la già nota parolina-chiave “incomunicabilità” è stata consacrate facile tomba dell’amore.
Se negli anni Cinquanta il matrimonio durava tutta la vita, oggi, dati Istat alla mano, dura 19 anni. A resistere, però, sono soprattutto le unioni di vecchia data, quelle di generazioni nate in tempi in cui il divorzio non esisteva. Oggi, invece, ci si lascia anche solo dopo 18 mesi di matrimonio, e l’età media delle neoseparate è di appena 42 anni. Negli ultimi vent’anni, le separazioni sono raddoppiate. Sono indicatori di qualcosa che già tutti sanno: far durare un amore è diventato terribilmente difficile. Le cause sono tante, e una riguarda proprio la difficoltà a comunicare. Nessuno ci insegna come parlare agli altri per incontrarli davvero. Con la professoressa Scarpa, abbiamo provato a stilare venti consigli per far funzionare a lungo la coppia.
1. Guardare prima le qualità poi i difetti. Il partner è sempre in ritardo? Si dimentica anniversari e compleanni? Ha le mani bucate o è tirchio? Ha sempre la testa per aria? Non è ambizioso oppure è un carrierista che trascura la famiglia per il lavoro? La lista delle lamentele possibili su qualcuno con cui dividiamo la vita da anni può essere lunga, ma non va compilata. «Siamo tutti vittime della percezione selettiva: siamo sensibili soprattutto a ciò che non va bene e diamo per scontato ciò che funziona e le doti che l’altro ha», spiega la professoressa Ludovica Scarpa. «Bisogna ragionare al contrario, prima di dirsi: mio marito non aiuta in casa, bisogna dirsi che è straordinariamente affettuoso».
2. Coltivare la stima. Se ci sembra che la persona con cui dividiamo la vita non sia abbastanza, stiamo ponendo le basi affinché l’amore si schianti. «Tutti noi abbiamo priorità e obiettivi diversi», spiega la Scarpa. «Un esempio: essere in carriera non è un valore positivo in sé, se questo significa disinteressarsi della coppia. Bisogna tenerlo presente quando critichiamo un partner perché è poco ambizioso. Guardando la situazione senza pregiudizi, ci potremmo rendere conto che non è un carrierista, però è una persona che ama trascorrere del tempo con noi».
3. Mai affibbiare un’etichetta. Quante volte abbiamo detto, con fare accusatorio, “tu sei…”? Tu sei egoista. Tu sei sempre in ritardo… «Tutte le volte che incaselliamo una persona, inchiodandola a un difetto, l’allontaniamo da noi, spingendola contro un muro», spiega la Scarpa, «più che dire “sei un disordinato” dovremmo spiegare con pazienza e, magari sense of humor, perché abbiamo bisogno di vivere nell’ordine, quindi chiedere qual è la percezione dell’ordine e del disordine che ha l’altro».
4. Non far dipendere la nostra felicità dal partner. Pretendere che la nostra felicità dipenda da qualcun altro è un ingenuità. «Rende la relazione pesante», precisa la professoressa Ludovica Scarpa, «il mondo non può adeguarsi ai nostri desideri, perciò bisogna guardare con benevolenza alla persona con cui stiamo, riconoscendo che, come tutti, fa quel può, non quello che noi vorremmo».
5. Non tenere la contabilità dell’amore. «L’amore è un dono che si fa all’altro, non un investimento», spiega la Scarpa, «non possiamo fare il calcolo di ciò che deve esattamente tornarci indietro». Questo genere di conti investe valori estremamente soggettivi, e non torna mai.
6. Non pretendere sesso a prescindere. «Le relazioni che durano a lungo sono basate più sull’amicizia e la solidarietà che sulla passione e l’attrazione non funziona a comando», dice la Scarpa. «Se pretendi, l’altro ti percepisce come richiedente e si ritrae. È una legge della fisica: se qualcuno ti spinge, tu ti sposti. È meglio invece essere attivi, propositivi, generare situazioni di gioia e di piacere e anche di distanza: avere una serata libera in cui ognuno esce con i suoi amici avvicina».
7. Mai mettere l’altro sotto accusa nel sesso. Dirgli che a letto pensa solo a se stesso, o che è pigro, poco appassionato, poco fantasioso e via così non è una buona idea. «Molto meglio esprimere i propri desideri, un “mi piacerebbe questo o quest’altro”, senza addossare colpe o pecche», spiega l’esperto di comunicazione interpersonale. «Questo discorso vale soprattutto per gli uomini. Per loro, il sesso è un tema delicato ed è facile sentirsi sotto accusa e provare ansia da prestazione».
8. Mai dire “ho bisogno di te”. «È una frase che ci fa sentire in trappola. Pensi subito al gatto che ama tanto il topo e t’immedesimi nella fine del topo», dice la Scarpa, che spiega: «Se abbiamo bisogno di essere amati, per non star male, risultiamo subito minacciosi per la libertà dell’altro. Non vi è frase meno romantica e più deprimente di “ho bisogno di te”, frase che rende indesiderabile chi la pronuncia e crea tensione e preoccupazione in chi subisce un’aspettativa tanto alta».
9. Vietato dire “ho ragione io”. Da una discussione su chi ha torto e chi ha ragione possono nascere accuse incrociate particolarmente infelici, perché alimentate dalla foga del momento. «Ognuno di noi è un mondo a sé e legge la realtà con le sue priorità. Si può tenere il punto, ma con una modalità interlocutoria e mantenendo la calma», spiega la Scarpa, «Basta partire con la parolina magica “capisco”: sai, capisco che tu la vedi in maniera diversa, ma anch’io sono convinta…».
10. Mai far leva sul senso di colpa. Molti pensano che far sentire in colpa per il partner per qualcosa che ci ha infastidito o ferito abbia il vantaggio di renderlo più docile. Il che è vero solo all’apparenza. «Far pagare all’altro un prezzo emozionale per quello che ci ha fatto è un gioco di potere fallimentare che ci rende fonte di emozioni negative e quindi, alla lunga, di insofferenza. Questo non significa che non bisogna esprimere le proprie emozioni, ma che bisogna spiegarle», assicura la Scarpa. Si può dire “se fai tardi mi spiace perché ci tengo a cenare con te”, ma non: “Hai fatto tardi, ho cenato da sola, sono stata tristissima, mi ha fatto perdere invece una cena piacevole con le amiche”».
11. Mai assolutizzare i comportamenti. «Se dico “per una volta potresti lavare i piatti”, sto sottintendendo che di solito devo fare tutto io e carico immediatamente la discussione del peso di molte discussioni arretrate, sto provocando, sto accusando l’altro, ed è chiaro che lo sto spingendo a litigare», spiega la Scarpa.
12. Non aspettarsi reazione da azione. «I nostri desideri non sono ordini e non possiamo aspettarci che qualcuno ci ami come vogliamo noi. Infatti nessuno dice “ti voglio bene come mi hai ordinato». Se abbiamo aspettative troppo precise, fatalmente l’altro le tradirà, seppure a sua insaputa.
13. Disinnescare la gelosia. Spiega la professoressa: «Chi è geloso o possessivo ha un problema di cui dovrebbe occuparsi. Ma se ce l’ha, per disinnescarlo nell’immediato, consiglio di usare la comunicazione non violenta, cioè un sistema descrittivo, spiegando cosa vediamo, cosa sentiamo e di che cosa abbiamo bisogno. Esempio: “Cara, mi spiace e mi pesa molto doverlo ammettere, ma quando vedo che guardi il vicino di casa negli occhi, mi preoccupo e mi sento in ansia, perché io ho davvero bisogno di sapere che la nostra è una relazione solida…” Il che è molto meglio di una scenata e apre la possibilità di un confronto più sereno».
14. Baciare il rospo. Avete presente la favola del rospo che diventa principe quando la principessa lo bacia? Ha un suo senso, secondo la Scarpa: «Siamo noi con il nostro modo di vedere che rendiamo principe il rospo. Se gli vogliamo bene per quello che è, lo vediamo bellissimo».
15. Rinnovare la nostra scelta come nel matrimonio celtico. Spiega la Scarpa: «Nel rito celtico, gli anniversari sono l’occasione per rinnovarsi la promessa d’amore, come mettere un bollo sulla patente. I due si guardano negli occhi e si chiedono se vogliono risposarsi. È un ceck benevolo, e ha il vantaggio immediato di rendere entrambi più gentili nelle due settimane precedenti, in preparazione al momento in cui il proprio comportamento sarà sottoposto al voto».
16. Evitare stereotipi granitici. Bisognerebbe diffidare del verbo “dovere”: “la famiglia deve essere unita”, “i mariti devono essere collaborativi”, “nell’amore deve esserci la passione”… «Il confronto fra l’ideale e il reale uccide il rapporto», spiega la prof, «costringe l’altro a confrontarsi con qualcosa di astratto, lo fa sentire svalutato e non letto nelle sue buone intenzioni».
17. Dare per scontate le buone intenzioni. La diffidenza rovina anche le coppie più belle, molti per paura, insicurezza, tendono a non credere all’altro fino in fondo. «Ma se sei malevolo, sei il primo a non volere bene e illumini male la coppia. Se non ti fidi, l’altro non si sente accettato, sarà nervoso, non darà il meglio di sé».
18. Mai lasciare spazio al rancore. Lo psicologo Eric Berne diceva che il rancore funziona come la raccolta punti: «Ogni volta che stiamo zitti, tacendo su un comportamento dell’altro che non ci piace, accumuliamo “punti”. Quando la raccolta è colma, siamo pronti a esplodere in una scenata epocale, scatenata all’apparenza da poco o nulla», spiega la Scarpa. Tacere, dunque, non si può. Si può dire tutto, se lo si dice nel modo giusto: «Se lui non si accorge che sono stata dal parrucchiere, puoi dirgli, sorridendo: “Pensavo di farmi rossa a pois gialli per farti una sorpresa e farti notare che ho tagliato i capelli”. Ma, prima di tutto, bisogna ricordarsi che l’attenzione altrui funziona diversamente dalla nostra. È possibile, in
linea teorica, che lui non noti i nostri capelli perché guarda i nostri occhi».
19. Non discutere mai quando si è arrabbiati. Quando siamo arrabbiati possiamo dire e fare le peggiori cose: offendere, dire quello che non pensiamo, rompere piatti contro il muro… Cose altamente sconsigliabili. «Bisogna fermarsi prima, e calmarsi», raccomanda la prof, «se urli è come stropiacciare un fogli di carta. Dopo, puoi stirarlo, ma non torna nuovo. Hai dato all’altro l’esperienza di vedere quanto puoi essere anche spaventoso e quell’immagine non lo lascerà più».
20. Imparare a scusarsi. Siamo tutti imperfetti e ammetterlo aiuta, specie ammetterlo con chi ci ama. «Ci scusiamo quando ormai il danno è fatto, ma le scuse sono l’occasione per riflettere insieme su cosa è successo, il momento in cui esprimiamo quanto è importante per noi il rapporto con la persona con cui ci scusiamo», osserva la Scarpa. «Nello scusarsi, viviamo un caso evidente del potere delle parole: con esse arginiamo un danno, che resta, ma cambia nei significati che assume per le persone coinvolte. Se riusciamo anche a esprimere il nostro desiderio di rimediare, le scuse possono diventare un’occcasione di crescita per il rapporto».
20 aprile 2016
Adolescenti in viaggio da soli: 10 regole per genitori (e figli)I consigli del pedagogista e fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti per gestire i primi viaggi in solitaria dei propri figli
Al mare (o in montagna) con mamma e papà? Non se ne parla. Prima o poi il momento del rifiuto arriva per tutti: l’adolescenza incombe, con i suoi tumulti, e tra gli effetti più conclamati c’è la richiesta pressante, da parte dei ragazzi, di trascorrere le vacanze da soli. Può essere già accaduto che abbiano dormito fuori casa, anche più piccoli, in occasione di una gita scolastica o di un campo estivo. Ma come affrontare questa richiesta d’indipendenza nella fase più imprevedibile della loro vita?
Ce lo spiega Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti: «La dimensione del viaggiare in autonomia è un modo per cominciare a conoscere i loro limiti e le risorse che hanno a disposizione, conoscere nuove città, lingue diverse, altre persone. Il viaggio, in questo senso, conta quasi quanto andare a scuola».
Ma in che modo? «Non certo come dei quarantenni con una piena libertà di scelte, di budget e di spostamento -, avverte Novara -. È necessario aiutarli e, come sempre, negoziare per arrivare a una soluzione che sia anche occasione di crescita», avverte l’esperto.
Adolescenti pigri: 5 consigli per motivarli nello studioDivisi tra smartphone e divano, molti ragazzi hanno messo lo studio all'ultimo posto. Ecco come aiutarli a ritrovare l'interesse verso l'apprendimento
Ragazzi svogliati e demotivati. Figli che passano le giornate non più sui libri, ma su tablet e smartphone. Privi di interessi verso l’apprendimento, non si impegnano nello studio e di conseguenza a scuola ottengono risultati insufficienti. L’inattività dei ragazzi è un problema comune a molti genitori. A dirlo sono anche i risultati del recente rapporto Save the Children Illuminiamo il futuro 2030 – Obiettivi per liberare i bambini dalla Povertà educativa.
Il 48,4% dei ragazzi di età compresa tra i 6 e i 17 anni nel 2014 non ha letto neanche un libro e rispettivamente il 69,4% e il 55,2% non ha visitato un sito archeologico e un museo. Il 25% dei quindicenni è carente in matematica. Uno su 5 lo è nella lettura. Dati e numeri che offrono uno spaccato degli adolescenti di oggi, sempre più pigri e lontani da impegno e fatica.
«Ai ragazzi- spiega lo psicologo Iacopo Casadei, autore del libro A Scuola. Come incoraggiare nei figli la motivazione, l’impegno e l’autonomia nello studio, edito da Red Edizioni- non mancano gli stimoli. Molte famiglie fanno del loro meglio per avvicinare i figli alla lettura o ad altre attività culturali o sportive, ma quello che rende tutto più difficile è la sovrabbondanza di alternative più facili alle quali i ragazzi hanno quotidianamente accesso: iPad, televisione, videogiochi e persino tutta quella serie di impegni come compleanni, pomeriggi al parco a tema, ecc. organizzati dagli stessi genitori».
Ciò che serve ai ragazzi invece suggerisce l’esperto è «un po’ di sana noia, quella che spinge a guardarsi dentro alla ricerca dei reali interessi o a prendere in mano un libro». «Purtroppo – spiega Casadei – i genitori tendono ad essere sempre meno esigenti nei confronti dei figli. Esitano a chiedere loro un piccolo contributo quotidiano come rifare il letto, lavare i piatti, ecc. o non hanno il coraggio di indurli ad alzare l’asticella dell’impegno o del senso di responsabilità. Genitori che si sacrificano per fare al posto dei figli, a volte persino i compiti di scuola, dimenticano che in questo modo fanno perdere ai loro ragazzi la straordinaria possibilità di imparare a ottenere sempre qualcosa in più da se stessi».
Per esempio un sano senso di responsabilità germoglia fin da quando i genitori attribuiscono al ragazzo la responsabilità dei propri risultati scolastici, evitando di scaricare la responsabilità sugli insegnanti. La capacità di resistere alle vicissitudini della vita nasce fin da quando i genitori, con pazienza, aiutano i figli a rialzarsi e a non abbattersi dopo le prime difficoltà scolastiche. Uno sviluppo armonico del carattere, e soprattutto educare i tratti che hanno un influsso positivo, come la tenacia, la costanza, la metodicità dello sforzo, risulta alla fine dei conti il miglior modo per far fruttare la stessa intelligenza».
Il rendimento a scuola, infatti, non è solo questione di talento. «La convinzione che le capacità, non solo scolastiche, siano innate- dice Casadei – è falsa. Fino a quando questo pregiudizio non verrà eroso, molti giovani continueranno a venire ostacolati o dissuasi a coltivare ambizioni che sono in realtà perfettamente realizzabili, a condizione che vengano fornite sufficienti opportunità e che venga assicurato il necessario sostegno e incoraggiamento».
E in questo i genitori hanno un ruolo fondamentale. «A volte – spiega l’esperto – si tratta di rivedere le aspettative e gli obiettivi, facendo sentire il ragazzo maggiormente gratificato. In altre circostanze bisogna invece riuscire ad imporsi con maggiore fermezza e indurre il ragazzo ad alzare l’asticella dell’impegno quotidiano, ponendo limiti, regole e restrizioni. Lavorare sulla motivazione è importante, ma quanti genitori ribadiscono quotidianamente ai loro figli l’importanza della scuola senza ottenere risultati? A un certo punto occorre anche spingere i figli ad agire, lavorando insieme a loro se necessario o utilizzando punizioni e gratificazioni, e la motivazione verrà di conseguenza con l’abitudine all’esercizio o come risultato di un lavoro ben svolto che dà soddisfazione anche al ragazzo».
Ma in che modo incoraggiare gli adolescenti a ritrovare la giusta motivazione nell’impegno quotidiano e lo stimolo nell’apprendimento? Ecco cosa suggerisce lo psicologo Iacopo Casadei.
L’obiettivo deve essere l’impegno
I genitori non devono porre ai figli obiettivi in termini di prestazione scolastica e di voti, ma viceversa esclusivamente in termini di impegno. Bisogna chiedere ai ragazzi di lavorare con concentrazione, di sforzarsi di apprendere, di dedicare alle attività scolastiche il giusto tempo, nient’altro. Porre limiti, se necessario allontanando ogni distrazione, rimane un caposaldo dal quale non si può prescindere. Soprattutto ad un’età, quella adolescenziale, in cui se un ragazzo non ha già maturato una spiccata coscienziosità farsi distrarre è molto facile.
No alla ricerca del talento a tutti i costi
In famiglia bisogna abituarsi ad utilizzare un linguaggio che valorizzi il lavoro e il sacrificio, anziché andare all’ossessiva ricerca di un qualche presunto talento precoce, una tendenza nociva della società attuale. Di fronte a un compito di matematica ben svolto, ad esempio, bisogna evitare definizioni come “sei stato bravo” o “ in questa materia sei un asso”. E’ importante invece gratificare i ragazzi dicendogli “hai lavorato con impegno”, “hai imparato”.
Trasformare l’imposizione in opportunità
Valorizzare l’apprendimento quotidianamente, anche con il buon esempio è fondamentale. Imparare ogni giorno cose nuove costituisce davvero un’opportunità da di vivere quotidianamente insieme ai figli, leggendo insieme a loro, insegnandogli ad esempio a coltivare l’orto o praticando un’attività istruttiva. Coltivare l’equilibrio interiore e la serenità dei figli è parimenti importante. Se la scuola è un problema, diventa giocoforza importante mollare la presa su altri aspetti, meno importanti, altrimenti si rischia di vivere un conflitto ininterrotto. Allo stesso modo quando si pongono dei limiti non bisogna ricorrere contemporaneamente al ricatto emotivo o mostrare eccessiva durezza.
Stimolarli con interessi diversi
Aiutare un ragazzo a coltivare anche interessi diversi da quelli scolastici, soprattutto se la scuola non gli piace, può costituire un importante terreno di maturazione parallelo e complementare, dove poter apprendere e capire che attraverso l’entusiasmo e l’impegno si possono realizzare e raggiungere degli obiettivi.
Punizioni e premi solo se necessari
Un rapporto positivo con lo studio si costruisce valorizzando l’istruzione e il rapporto con scuola e insegnanti, abituando il ragazzo alla concentrazione e all’impegno, ponendo le basi di una buona organizzazione nel lavoro scolastico e coltivando in lui il giusto atteggiamento mentale. Mentre si fa tutto questo, si può ricorrere anche a premi e punizioni, solo però se necessari. Ma se in loro manca la giusta motivazione, punire o premiare rischia di servire a poco. In ogni caso, si punisce o si premia sempre il lavoro, l’impegno o la concentrazione, mai i risultati mancati o raggiunti.
16 aprile 2016
I giovani: niente discoteche, meglio il divano
Prezzi alti, problemi di sicurezza. Il sabato sera i ragazzi preferiscono stare a casa. Insieme a pochi amici reali o lanciandosi in avventure digitali
Lo sai quante volte mi hanno detto che ero bravo in vita mia? Due volte! Due ca**o di volte! L’aumento di oggi e sulla pista… La pista da ballo in discoteca! Tu col ca**o che me l’hai mai detto! (La febbre del sabato sera).
Era il 1977, e il 19enne Tony Manero, garzone dal futuro incerto, in un colorificio a Brooklyn, viveva per quelle serate al 2001 Odyssey, quando si trasformava in re. Per Manero, la discoteca era l’unica chance per diventar qualcuno e fargliela vedere; anche a suo padre, disoccupato ma orgoglioso. Pochi anni dopo, in The Last Days of Disco (1998), ambientato nei primissimi Ottanta, era già tutto cambiato. Quei “Riti tribali del nuovo sabato sera”, del reportage del New York Magazine che avevano ispirato La febbre, ormai sbiaditi. «I nostri corpi non sono fatti per la socialità di gruppo» faceva dire il regista Whit Stillman al gestore Des McGrath. «L’invasato da nightclub non è una categoria professionale. Yuppies: giovani, in carriera, professionisti. Quelli dovremmo essere».
La Spoon River dei locali
Oggi le discoteche sono morte. Fallite, demolite. Un’inchiesta dell’Economist, a gennaio, snocciolava i dati della crisi. In Olanda, tra il 2001 e il 2011, ha chiuso il 38 per cento dei locali; in Gran Bretagna, delle 3.144 sale del 2005 ne sono rimaste 1.733, e si è speso per ballare 500 milioni di euro in meno negli ultimi cinque anni. Se Berlino resiste e tira ancora tardi, l’Italia, patria di Rimini e Riccione, conta ormai appena 2mila discoteche, contro le quasi 5mila di 11 anni fa. Memories on a dancefloor, come il blog che è la Spoon River dei locali della notte anni Novanta. Così a New York il CBGB è diventato una boutique, lo Studio 54 un teatro, il 2001 Odyssey un ristorante cinese. E l’Istat britannico quest’anno ha elimin-9ato il prezzo del biglietto di una serata in discoteca dal paniere per calcolare l’inflazione. Abusivismo, droghe, lamentano i gestori, la concorrenza di pub e cocktail bar. Ma sarà tutto qui?
Su Tinder ci si incontra di più
Il Guardian ha pubblicato i risultati di un’indagine sul rapporto tra i ventenni e “la disco”, e se alcuni citano nightclub che chiudono proprio quando iniziavi a divertirti, i più dipingono una realtà diversa, di crisi economica e prezzi troppo alti, ma anche paura di uscire e ossessione social. Perché oggi i giovani s’incontrano su Tinder, e il 66,8 per cento preferisce rilassarsi a casa propria. «Tra bevande e taxi, la discoteca costa quasi quanto un weekend fuori» spiega una 21enne. «Perché venir schiacciati in sale fumose e sudaticce, con la musica che ti sfonda i timpani e gente sempre uguale, se puoi passare una serata più soddisfacente a casa, spendendo molto meno? Tanto più che la gita fuori porta rende meglio su Instagram».
I dj troppo protagonisti
Anche la musica, dicono, è molto peggiorata. Con dj protagonisti, che mettono ciò che piace a loro invece che ai clienti. E poi sporcizia, furti, buttafuori aggressivi. Non è che non si vada più a ballare, ma preferiscono un festival, la musica dal vivo. Soprattutto, le discoteche sono impersonali. «Non si può parlare, gli amici se ne vanno senza dirtelo: passi la serata a cercare le persone con cui sei venuto. Meglio i social». Anche il linguaggio del rimorchio non è più quello di una volta. “Ehi, Tony. Vai forte a letto come sulla pista da ballo?”, chiedeva Connie (una Fran Drescher al debutto) in Saturday Night Fever.
No alle sbronze, sì al futuro
Non mancano questioni legate alla sicurezza. «Fare lo slalom tra ubriachi che ti mettono le mani addosso non è il mio ideale di sabato sera. A casa non devo preoccuparmi che mi versino nel drink la droga dello stupro». Un problema, l’alcol, molto sentito anche da noi, come racconta Alessandra Di Pietro in Il gioco della bottiglia (Add editore). Tra i 18-24enni italiani che vanno in discoteca oltre 12 volte l’anno, il 39,9 per cento dei maschi e il 17,9 delle femmine ne beve più di cinque unità. «L’abitudine di bere fuori pasto cresce fra le donne» osserva Di Pietro. «Nel 2014 lo ha fatto il 37,4 per cento delle 18-24enni. Chi va in discoteca è due volte a rischio di binge drinking, anche se l’ubriacatura molesta è poco tollerata». I nuovi modelli aiutano. «C’è molta pressione sul perseguire stili di vita salutari», racconta una giovane al Guardian. «Anche per aver successo». Così in Germania più del 30% dei teenager non ha mai toccato l’alcol, la fascia 18-25 l’ha ridotto di un terzo.
Perfino i pub mettono ansia
Ragioni anche più profonde fanno dire no alla discoteca. Uscire mette ansia, devi essere al meglio: perfino i pub causano angoscia, confessa un 19enne di York. Molto più rassicurante parlare con gli amici via Facebook o Skype che costringersi a situazioni potenzialmente imbarazzanti. Restare a casa, insomma, per essere in controllo. E non a caso molti citano la reputazione social: il timore di lasciarsi andare, di essere fotografati e poi postati in circostanze e abbigliamento non perfetti.
Meglio latte, biscotti e tv
E poi sono troppo stanchi. Esausti, specie gli studenti. Accusano le generazioni precedenti di edonismo: per loro, una notte a ballare è un vizio scandaloso. «In un mercato del lavoro così competitivo è inconcepibile perdere due giorni tra disco e sbronza, se vogliamo rispettare gli obiettivi che ci siamo imposti», osserva una 20enne. «Meglio latte e biscotti davanti alla tv». Generazione Sbadiglio, li definiva, un po’ ingenerosamente, il Daily Telegraph. «Non è che sono infelici, non sanno divertirsi». Ma anche solenni e compassati, a inseguire le certezze negate loro da terrorismo e recessione. Chiosa una 22enne di Edimburgo: «Buttare i soldi in discoteca? Oggi i giovani si chiedono se potranno permettersi un mutuo, avere figli». Altro che «Per me il futuro è stasera!» di Tony Manero.
John Travolta parla del triste evento che ha segnato la sua vita e non esita a spiegare cosa a lui abbia insegnato: "Mio figlio mi ha dato grande gioia, era tutto per me. Quei 16 anni da padre mi hanno insegnato cosa significhi amare in modo incondizionato (...). La vita è molto breve".
Da qui un consiglio che John Travolta sembra voler dare a tutti, genitori e figli: "Passate del tempo con i vostri genitori e voi genitori passate del tempo coi vostri figli (...) Quello che davvero io ho imparato da tutto ciò è di vivere e amare ogni giorno come se fosse l'ultimo. Perché un giorno lo sarà".
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